"Io, professoressa con mille 'tituli' | e la carriera col passo del gambero" - Live Sicilia

“Io, professoressa con mille ‘tituli’ | e la carriera col passo del gambero”

Non c'è solo la Formazione. Anche la scuola presenta un problema di precarietà. Un'amica di queste pagine ci ha scritto una lettera in cui racconta la sua esperienza di docente.
Le storie della scuola
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Ho 38 anni. Potrei citare a casaccio abilitazioni, master, concorsi, corsi di specializzazione, certificazioni internazionali. In una parola gli spagnoli direbbero che sono affetta da titulismo. Potrei aggiungere che ho fatto la traduttrice, l’interprete, collaboro da 10 anni con un’organizzazione che si occupa a livello internazionale di vacanze studio e che da altrettanti anni insegno a scuola, che ho accumulato centinaia di ore in corsi come esperto di lingua e tutor. Potrei vantarmi della pubblicazione dell’estratto della tesi negli Annali dell’Univeristà di Perugia.

Qualche mese fa il ministro Gelmini ha perentoriamente dichiarato che avrebbe pubblicato i curricula dei docenti, mettendoli a disposizione di genitori e quant’altri interessati. Il mio commento è stato: lo pubblichi pure, pubblichi anche il suo e vediamo qual è meglio. Il mio, senza dubbio, se stiamo a guardare la quantità di titoli posseduti e la qualità del percorso fatto. Il suo, se dobbiamo fermarci a guardare il trascurabile fatto che lei è ministro della Repubblica italiana e io invece faccio carriera al contrario.
Più accumulo esperienza e competenze di cui la scuola italiana se ne infischia, più diviene palpabile la sensazione che, a parte la stima di colleghi che occasionalmente ti dicono che sei brava bla bla bla, io stia andando indietro, invece di andare avanti.

Di insegnare inglese non se ne parla, cattedre non ce ne sono. A nessuno importa che io sappia l’inglese come lo so, e la beffa è che te lo fanno pure dichiarare, con tanto di riferimento al Quadro Comune di Riferimento per le Lingue. Di tutti i titoli e l’esperienza maturati, al Ministero Taglia e Scuci dell’Istruzione che si riempie la bocca di valutazione degli insegnanti, non importa niente. Dei ragazzi al Ministero non importa niente.

È di queste ore la notizia che nella mia scuola – tra precari e docenti di ruolo – si perderanno tra le sei e le sette cattedre di sostegno. C’è anche la mia tra queste. Poco male, mi dicono alcuni. Tanto da qualche parte ti devono infilare. Tanto il docente perdente posto sceglie per primo. Tanto non è che ti licenziano. Sta a vedere che li devo ringraziare.
Ma io non sono il pezzo avanzato di un puzzle. Può essere pure che, scegliendo per prima, io finisca persino in una scuola migliore – per utenza e per strutture – di quella in cui insegno. Ma mi sentirò comunque di avere fatto un passo indietro.

Ho una prima media, quest’anno. Dei ragazzi che hanno bisogno di essere sostenuti, seguiti, incoraggiati, spronati giorno per giorno. Non sono dei dati da tabulare per le innumerevoli statistiche Invalsi, centinaia di pagine in cui ci si chiede quale titolo di studio e quale lavoro facciano i loro genitori, per poter così dedurre chissà quale valutazione sociologica. Sono persone che hanno tutte una loro storia, diversa e unica.
C’è S., che si esprime a fatica, non trova mai il verbo giusto per dire qualcosa, ma apre gli occhi e il cuore a tutto quello che è attualità e storia, cogliendo intuitivamente il nesso tra passato e presente. C’è N., testardo come Stardi, che non si stanca di dire: Professoressa, non ho capito. C’è A., “piccola canaglia” che lo scorso anno era un mezzo teppista e quest’anno è seduto al primo banco e cerca di assorbire tutto quello che gli si dice in classe, pur di non studiare a casa e di non ripetere ancora l’anno. E poi c’è quella che si lamenta, quello pigro, quella che non la senti manco con il cornetto acustico, quello che si impiccia sempre, il primo della classe chiacchierone, la brava sottovalutata, quella che ha paura del pallone di pallavolo e quella che si spaventa del professore di storia, quella che ancora non sa le tabelline, quella che quando scrive sembra dipingere, quello che si scorda sempre tutto, quella in the sky with diamonds, quella sempre interrogata in tecnologia…

I miei alunni si riconoscerebbero in queste definizioni. I miei colleghi li riconoscerebbero. Tutto questo – che non ha senso per chi non abbia fatto parte del nostro microcosmo – è destinato a finire a giugno quando la metà circa degli insegnanti della classe verranno ricollocati altrove, come i pezzi avanzati di un puzzle, quelli azzurri del cielo, tutti uguali tra loro agli occhi di chi mette insieme le tessere senza passione.
Si fa carriera al contrario quando non si può fare un investimento di ampio respiro su un ragazzino per cui nove mesi di scuola non sono abbastanza e tre anni scolastici forse sì. Si fa carriera al contrario quando non si può investire su un lavoro programmato e coordinato con colleghi affini per interessi e visione delle cose. Si fa carriera al contrario quando non si può programmare un percorso di educazione ai valori, al rispetto. Si fa carriera al contrario quando si deve ricominciare daccapo cento volte non perché tu hai deciso di cambiare, ma perché ti hanno ricollocato, a uso e consumo di una scuola più povera. Da più parti si alzano voci: ma tu sei fortunata, perché sei di ruolo. Di che ti lamenti? Pensa a chi l’anno prossimo non lavorerà…

Io a questo adagio del “C’è chi sta peggio di te” non mi rassegno. Lo so che c’è chi sta peggio di me e cerco sempre di non lamentarmi del mio dolore di denti a casa del moribondo. Ma io non sono fortunata, perché quello che ho lo devo a me stessa, a quello che ho fatto e costruito. Fortunato è chi vince ai pacchi di RaiUno, chi trova per terra 100 euro.
Io faccio carriera al contrario, in un paese dove il merito non esiste, dove si cammina all’indietro come il cordaro, senza guardare dove si va. Dove finché ti ricollocano da un’altra parte, alla fin fine, che ti lamenti a fare? Stai solo ipotecando il futuro di una generazione tra i cui figli, per pura fortuna, non c’è il tuo, perché non ti sei potuto permettere il lusso o l’incoscienza di metterlo al mondo.

DANIELA VACCARO

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