Fenomenologia di Totò Cuffaro - Live Sicilia

Fenomenologia di Totò Cuffaro

Livesicilia è un sito aperto al dialogo e ai contributi dei suoi lettori. La creazione di una comunità in cui scambiare idee è un esperimento che ci sta molto a cuore. Pubblichiamo un contributo di Andrea Giuliano sul "caso Cuffaro", un fenomeno ancora da analizzare compiutamente, per capire meglio la Sicilia e i siciliani, anche se le sbarre del carcere ormai si sono chiuse.
Lettera al direttore
di
6 min di lettura

Caro direttore,

Totò Cuffaro non è mai stato amato dall’intellighenzia, dai salotti, dai radical chic. Aveva una dizione caricaturale, tipica dell’agrigentino, che faceva storcere il naso ai puristi, a quelli col vezzo della erre moscia che fa tanto rive gauche. Seduto, non accavallava mai le gambe, “ho le cosce grosse, sono troppo pacchione”, gli abiti gli stavano sempre “giusti giusti”, sulla pancia un origami di grinze, tipiche di chi ha tanti chili di troppo e nessuna voglia di smaltirli. Non veniva da una famiglia dal nome altisonante, né poteva raccontare di essere stato sedotto sui banchi di scuola o all’università dalle folate di Lotta Continua o di Movimento studentesco. E’ figlio di due maestri di Raffadali, a scuola andava al Don Bosco a Palermo. Lì viveva da liceale, nell’annesso convitto, che non era un collegio svizzero ma più semplicemente un dormitorio per i ragazzi di paese che non potevano permettersi altro. E, fino all’incontro con sua moglie Giacoma, girava con i calzini bianchi corti, tratto distintivo dei “paesani”, arrivati in una città come Palermo.

Ma soprattutto ad alienargli le simpatie della borghesia colta, degli intellettuali, era, è sempre stato e tutt’ora è, il suo essere orgogliosamente democristiano, in un momento in cui tutti giuravano di non aver votato Salvo Lima (dc della corrente avversata da Totò Cuffaro) che, inspiegabilmente, raccoglieva puntualmente messe di voti. Aveva definitivamente perso ogni speranza di poter piacere ad una precisa weltanschauung, quando in occasione della puntata di Samarcanda, in memoria di Libero Grassi, conduttori Maurizio Costanzo e Michele Santoro, aveva difeso a spada tratta Calogero Mannino, il suo padre politico, finito nel mirino dell’antimafia militante. Contrariamente alle leggende metropolitane circolate successivamente, nulla aveva detto su Giovanni Falcone, allora principale bersaglio di Leoluca Orlando e della Rete, perché accusato di avere insabbiato le inchieste sui delitti eccellenti e sui rapporti fra politici e mafia.

Quella sera era nato l’uomo politico siciliano più amato da alcuni per il suo coraggio e la sua coerenza, più odiato da altri per le sue idee ed il suo modo di esprimerle. Alle disquisizioni accademiche salottiere, ha sempre preferito le tavolate oceaniche da sagra di paese, con la vecchietta che lo abbraccia e gli dice: “Totuccio mangia che sei fatto sicco”, ( a dispetto dei cento e passa chili). Questa è la cifra dell’uomo: il contatto con la gente comune, con i signor Nessuno, con quelli che si sono sentiti per anni soltanto un certificato elettorale.
E’ semplicistico dire che è soltanto clientela, che tutti i cuffariani siano soltanto i suoi clientes. Non nascondiamoci dietro un dito, ce ne sono tanti, avvezzi ad un sistema che Cuffaro non ha creato ma che in una qualche misura si è poi trovato a gestire. Ma oltre i questuanti, oltre il do ut des che contraddistingue tutta la storia della politica di questa terra, nella fenomenologia di Cuffaro c’è altro. Ha baciato tanti, tanti siciliani. E molti di questi lo adorano. Perché per la prima volta si sono sentiti qualcuno. E’ vero quello che raccontano i miti urbani sull’uomo, ovvero che ci sono stati uomini e donne qualunque, con molti voti o anche con il loro soltanto, che hanno atteso ore, nelle anticamere, pur di parlare con lui e poi raccontare agli altri, “ma lo sai che ho parlato con Totò e che mi ha baciato. Io ca sugnu nuddu e iddu che è u presidente. Ma cu mi l’avia a diri”. Per una volta, questi anonimi erano diventati un nome nelle stanze del potere.

La politica di favori, di prebende, come nasconderla? Rientra in quello che il navigato Mannino ha descritto come “il contesto Sicilia”, che non è esattamente la Svizzera e nel quale tutti quelli che fanno politica si muovono, chi con maggiori, chi con minori disinvoltura e spregiudicatezze. Rispetto alle colpe per consuetudine attribuite all’uomo, voglio citare la più grave, a mio avviso: non essersi circondato di uno staff di collaboratori realmente all’altezza del ruolo. Alcuni sono finiti nelle intercettazioni in atteggiamenti quasi ridicoli se non fossero tragici. Altri hanno fatto finire, con noncuranza, sul tavolo di Cuffaro un vassoio di cannoli, lasciati lì e spostati troppo tardi da lui stesso, mentre qualcuno che avrebbe dovuto capire gli effetti deflagranti sul piano della comunicazione ed altri collaboratori chiacchieravano o banchettavano. Cannoli che sono diventati un emblema di festeggiamenti mai fatti, il simbolo di uno spregio alle regole non nutrito.

Avrebbe dovuto essere più accorto. E invece è stato un ingenuo. Scandalizzerà questo aggettivo attribuito ad un politico navigato, eppure è la realtà. Sarà la matrice democristiana che non gli ha consentito di fare volare dalla finestra i mediocri, gli inetti che lo circondavano, che millantavano credito, da sanguisughe e che parte importante hanno avuto in quello che è accaduto. Qualcuno dirà che non può essere un’attenuante, un’esimente, no, non lo è, ma è un fatto. Non entro nel dettaglio della sentenza ma mi sia consentito di esprimere la mia opinione: sono convinto che non sia mafioso. Sono convinto che non abbia voluto favorire la mafia. Non commento la sentenza, affermo un mio sentire. Che nasce dalla conoscenza dell’uomo, che non è un santo (ma chi può dire di esserlo?) ma non è lestofante. Che ha fatto tanto per la Sicilia. Qualcuno risponderà, “soltanto assunzioni, soltanto favori”, dimenticando per esempio che battendo i pugni sul tavolo ha impedito che la Fiat smobilitasse lo stabilimento di Termini Imerese già tanti anni fa, con conseguenze sul piano sociale peggiori di quelle paventate in questi giorni. Od omettendo di citare gli scontri con l’intoccabile Tremonti per dare alla Sicilia i fondi che spettavano, (e che poi sarebbero arrivati), o la battaglia per costringere le imprese che operano in Sicilia ad avere sede legale nell’isola e di conseguenza a far rimanere qui le tasse che versano.

Grazie a lui, prima da assessore all’Agricoltura e poi da presidente, il vino siciliano è diventato famoso; ha sostenuto con interventi mirati i vitivinicoltori ed ha pianificato la creazione di uno stand siciliano al Vinitaly, intelligente strategia che ha fatto conoscere un prodotto di pregio, fino ad allora usato solo per “tagliare” i vini del Nord Italia. Durante la sua Presidenza l’Unione Europea ha attribuito premialità alla Sicilia per il corretto impiego dei fondi comunitari e questo ha consentito di ottenere maggiori risorse. Si obietterà che, rispetto a questi dati, tanto altro non è stato fatto o è stato fatto male. Potrebbe essere, ma è possibile anche che molto di quello che il suo governo ha pianificato avrebbe dato risultati a lungo termine non nell’immediato.

Da qui la sintesi: il giudizio sul suo operato di amministratore, al di là delle contrapposizioni politiche, è complesso e sarà il tempo a poter fornire una risposta.

Il giudizio sull’imputato, invece, quello si può dare già adesso. Avrebbe potuto insultare la Magistratura, gridare al complotto. E’ rimasto composto, in silenzio, accettando sino all’estremo una sentenza che lo ha reso un morto civile, 7 anni di condanna, 5 anni certi di 4 metri per quattro ed un’ora d’aria al giorno, interdetto in perpetuo ai pubblici uffici. Avrebbe potuto nascondersi in un rifugio dorato, in uno Stato che non ha accordi di estradizione con l’Italia. E invece è rimasto al suo posto. Avrebbe potuto attendere qualche giorno, prima di costituirsi: l’ha fatto qualche ora dopo la sentenza, conscio che, al contrario di quanto sostengono tanti ignoranti del diritto, questo non avrebbe cambiato di una virgola la sua posizione, perché la sua condanna non prevede sconti né attenuazioni di pena. Era entrato sul palcoscenico della politica in maniera fragorosa, ne è uscito in modo dimesso ma dignitoso ed onorevole.

Vedendo le immagini della sua definitiva uscita di scena, seduto nel sedile posteriore di un auto, fra due carabinieri, ho subito pensato ad una frase contenuta in un libro di Alessandro Baricco: “Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. La solitudine perfetta di ciò che si è perduto”.

Andrea Giuliano


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