"Una strage come in Libano" - Live Sicilia

“Una strage come in Libano”

di Attilio Bolzoni (tratto da "La Repubblica" del 24 maggio 1992) E' morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un'auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l'avevano tenuto in vita coi mitra in mano. E' morto con sua moglie Francesca. E' morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992.
SCELTI PER VOI
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di Attilio Bolzoni (tratto da “La Repubblica” del 24 maggio 1992)

E’ morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un’auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l’avevano tenuto in vita coi mitra in mano. E’ morto con sua moglie Francesca. E’ morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992.
La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C’è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta, in trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d’estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. Ci sono anche sette feriti, ma c’è chi dice che sono più di dieci. Alcuni hanno le gambe spezzate, altri sono in fin di vita.
Un bombardamento, la guerra. Sull’autostrada Trapani-Palermo i boss di Cosa Nostra cancellano in un attimo il simbolo della lotta alla mafia. Massacro ”alla libanese” per colpire e non lasciare scampo al Grande Nemico. Una tonnellata di esplosivo, un telecomando, un assassino che preme un tasto. Così uccidono l’uomo che per dieci anni li aveva offesi, che li aveva disonorati, feriti. La vendetta della mafia, la vendetta che diventa morte in un tratto di autostrada a cinque chilometri e seicento metri dalla città, la città di Giovanni Falcone, la città dove pochi lo amavano e molti lo odiavano.

La cronaca della strage comincia all’aeroporto di Punta Raisi quando su una pista atterra un DC 9 dell’Alitalia e subito dopo un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti proveniente da Roma. Sopra c’è Giovanni Falcone con sua moglie Francesca. Sono le 17,48 quando il jet è sulla pista di Punta Raisi. E sulla pista ci sono come ogni sabato pomeriggio tre auto che lo aspettano. Una Croma marrone, una Croma bianca, una Croma azzurra. E’ la sua scorta, la solita scorta con Antonio, Antonio Montanaro, agente scelto della squadra mobile che appena vede il ”suo” giudice che scende dalla scaletta si infila la mano destra sotto il giubbotto per controllare la bifilare 7,65.
Tutto è a posto, non c’è bisogno di sirene, alle 17,50 il corteo blindato che trasporta il direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia è sull’autostrada che va verso Palermo.
Tutto sembra tranquillo, ma così non è. Qualcuno sa che Falcone è appena sbarcato in Sicilia, qualcuno lo segue, qualcuno sa che fra otto minuti la sua Croma passerà sopra quel pezzo di autostrada vicino alle cementerie. La Croma marrone è davanti, centotrenta all’ora. Guida Vito Schifani, accanto c’è Antonio, dietro Rocco Dicillo. E corre, la Croma marrone corre seguita da altre due Croma, quella bianca e quella azzurra. Sulla prima c’è il giudice che guida, accanto c’è Francesca Morvillo, sua moglie, anche lei magistrato. Dietro un altro agente di scorta. E altri quattro sulla Croma azzurra. Un minuto, due minuti, la campagna siciliana, l’autostrada, l’aeroporto che si allontana, quattro minuti, cinque minuti, il DC 9 dell’Alitalia proveniente da Roma che scende verso il mare e sorvola l’A 29.

Sono le 17,57, Palermo è vicina, solo sette chilometri, solo pochi minuti. Lo svincolo per Capaci è lì, c’è un po’ di vento, ondeggia il cartellone della ”Sia Mangimi”, si muovono gli alberi, il mare è increspato. Ecco, sono quasi le 17,58. La Croma marrone è sempre avanti, il contatto radio con le Croma bianca c’è, la ”linea” è silenziosa, vuol dire che tutto va bene, non c’è problema. Ma dietro, intorno, da qualche parte, c’è l’assassino, ci sono gli assassini che aspettano Giovanni Falcone.
Sono le 17,58. C’è una curva larga, c’è un rettilineo di 180 metri, c’è un’altra piccola curva. E c’è un sottopassaggio prima di arrivare ad una specie di colonna grigia con su scritto ”Cementerie siciliane”. Il cartello che indica l’uscita per Isola delle Femmine è a qualche metro, più avanti ci sono due gallerie. Sempre buie, sempre mal illuminate. Sono le 17,58 e Salvatore Gambino, coltivatore diretto di trentaquattro anni, passeggia su un ponticello e guarda le auto che sfrecciano sull’autostrada. Sono le 17,58 e una Fiat Uno con una coppia di austriaci va verso Trapani seguita da una Opel Corsa di colore rosso.
Sono le 17,58 quando la mafia compie la sua vendetta. ”Ho visto una fiammata e poi ho sentito un boato… forse prima ho sentito il boato e poi ho visto del fumo nero”, racconterà un’ora dopo confuso il coltivatore Salvatore Gambino a un carabiniere. 17,58, l’ora del massacro, l’ora dell’infamia, dell’orrore, della morte. Il lampo, il tuono, la strada si apre per cinquanta metri verso Palermo e per cinquanta metri verso Trapani.

Gli oleandri che dividono le due carreggiate dell’autostrada A 29 bruciano, l’aria è irrespirabile, quintali di asfalto vengono catapultati verso il cielo. E’ l’esplosione, sono i mille chili di tritolo che brillano, che fanno strage, che fanno morte. I mafiosi li avevano piazzati in una specie di fossa a un metro dal sottopassaggio che taglia l’autostrada. Hanno aspettato Falcone, hanno aspettato la Croma marrone e le altre due auto blindate, hanno aspettato l’attimo per fare clic e uccidere il Grande Nemico. Solo trenta secondi, solo trenta secondi dal lampo e dal tuono alla strage e alla morte. Quando il tritolo esplode sulla strada si apre una buca, una diga, una fossa di una cinquantina di metri. ”Come il cratere di un vulcano”, dirà poi il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco. Dentro il cratere del vulcano finisce per un istante la Croma marrone. Solo per un attimo. Poi verrà scaraventata lontana, un volo di cinquanta, sessanta, ottanta, cento metri. Un volo dall’altra parte dell’autostrada, verso il mare, in un campo di ulivi.
Muore Antonio, muore Vito, muore Rocco. L’asfalto schizza per aria Muoiono tutti, poveri ragazzi. Un secondo dopo la Croma bianca guidata da Giovanni Falcone piomba nel cratere, si infossa, si alza, si schianta a terra, si rialza, si riabbassa. I primi tre metri di Croma vengono tranciati dal tritolo, l’altro metro e mezzo di automobile si accartoccia. I pezzi di asfalto schizzano per aria, volano verso il mare e verso la montagna. Giovanni Falcone viene schiacciato dall’urto del tritolo e dall’auto che sbatte impazzita, Francesca finisce sui vetri in frantumi, l’autista che sta dietro si chiama Giuseppe Costanza. E’ in trappola, prigioniero fra le lamiere, ma vivo, vivo. La Croma marrone è nel campo di ulivi ma la Croma di Falcone resta ferma, bloccata, in mezzo alle macerie, in mezzo al fumo nero, in mezzo al fuoco.
Tre secondi dopo la Croma bianca del giudice Giovanni Falcone sarà ricoperta di terra e di cemento, di fuliggine e di catrame. ”Io ero sul cavalcavia e mi sono messo a correre come un matto, correvo, correvo con il cuore in gola… dopo qualche minuto, forse tre, forse quattro, ho estratto dalla Croma di colore bianco il corpo di una donna… poi ho provato ha tirare fuori anche il corpo dell’uomo… ho saputo poi che era Falcone, il giudice Giovanni Falcone”, ricorda fra le lacrime il coltivatore diretto Salvatore Gambino. Il corpo di Francesca Morvillo, il corpo di Giovanni Falcone. L’autista non l’aveva visto, era sotto i sedili, era sotto le macerie.

Ore 17,59, autostrada Trapani-Palermo, chilometro 5,6. Una Croma non c’è più, un’altra è disintegrata, la terza, quella azzurra, è un ammasso di ferri vecchi. Ma dentro i quattro agenti sono vivi, feriti ma vivi. Feriti come altri venti uomini e donne che erano dentro le auto che passavano in quel momento fra lo svincolo di Capaci e Isola delle Femmine, fra le due gallerie e la cementeria, fra il sottopassaggio e la curva larga dove c’era una volta il cartellone della ”Sia Mangimi”. Dove c’erano i lampioni gialli e celesti che adesso sembrano scheletri, dove c’erano gli alberi che adesso sembrano canne nere, dove c’era una strada che adesso sembra un canale dove è passata la lava vomitata da un vulcano. Con decine e decine di automobili piegate, con le tutte le linee telefoniche della zona saltate, con l’energia elettrica che se ne va improvvisamente, con i vetri delle ville e dei palazzi nel raggio di chilometri che vanno in frantumi, con una grande nuvola nera che avvolge tutto e tutti.
L’inferno, l’inferno per uccidere il giudice Giovanni Falcone. L’inferno, l’allarme, la centrale operativa della polizia che va in tilt e i funzionari della Questura che parlano via radio della ”nota personalità” che stava passando alle 17,58 sull’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo. Chi è questa ”nota personalità”? Giallo per sette minuti, giallo e paura. Poi finalmente si capisce, poi finalmente la nota personalità ha un nome e un cognome, è Giovanni Falcone, è il giudice, è il direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia. E comincia la sarabanda di voci. E comincia l’altalena delle emozioni, i tuffi al cuore, i timori che si intrecciano. E’ leggermente ferito, è gravemente ferito, è in fin di vita, è salvo, è quasi morto, è salvo, è ferito, è lui, non è lui.
Quanta paura, quanta speranza, quante lacrime alle 18,47. Si, alle 18,47 un medico dell’ospedale civico firma il cartellino ”d’entrata” del giudice italiano più famoso nel mondo. Due parole, solo due parole: ”arresto cardiaco”. Giovanni Falcone è arrivato morto in ospedale, è arrivato già morto. E sull’ambulanza che lo trasportava c’era la sua borsa di pelle marrone. Piena di carte, piena di fogli. C’era anche un libro, ”Il ruolo del Pubblico ministero”. Su un’altra ambulanza Francesca, la moglie, giudice di tribunale, magistrato come il marito, magistrato come il fratello, Alfredo, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo. ”Ha le gambe rotte”, diceva alle otto di sera un infermiere del Civico. ”Ha il ventre aperto”, raccontava un chirurgo alle dieci di sera. E’ in coma, no si salva, è in fin di vita, è fuori pericolo. Povera Francesca, è morta, è morta anche lei con il suo amore.

A sera tarda, a tardissima sera arriva la solita rivendicazione della Falange Armata, arriva la notizia del lutto cittadino in memoria di Giovanni Falcone, arriva la notizia del consiglio comunale che si riunisce in seduta straordinaria con quello provinciale.
Arriva lo ”sgomento” della città di Palermo, la ”costernazione” della capitale siciliana per l’uomo simbolo, per l’uomo amato e odiato, per il giudice che ha mandato sotto processo mille uomini d’onore.
Gliel’avevano giurata a Giovanni Falcone. Gliel’avevano giurata tredici anni fa: ”Morirai, lo sai che prima o poi morirai…”. E lui lo sapeva. Ma ridendo, con quella sua faccia che alcune volte lo rendeva antipatico anche gli amici che lo volevano bene, lui rispondeva: ”Per me la vita vale come il bottone di questa giacca, io sono un siciliano, un siciliano vero”.
E rideva, rideva, Giovanni Falcone.


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